La Cassazione detta la linea per le importazioni di falsi da parte di privati

Categorie: 

Con particolare celerità, la V Sezione Penale della Cassazione ha reso disponibili le motivazioni di una recente pronuncia (udienza del 9 febbraio) in materia di importazione di prodotti contraffatti da parte di privati per uso personale.

Il caso riguardava un cittadino italiano che aveva acquistato su Internet un orologio definito “replica” di una nota Casa, di cui riproduceva i marchi, oltre alla forma, ma ad un prezzo ben inferiore rispetto all’originale. Nessun dubbio che si trattasse di acquisto fatto per indossare e non per rivendere l’orologio.

Il plico, spedito dalla Cina, era stato sequestrato dalla Dogana italiana, che aveva trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica. Quest’ultima aveva disposto il rinvio a giudizio dell’acquirente italiano, contestando il reato di introduzione nello Stato di prodotti contraffatti (art. 474 comma 1 cp).

Condannato in primo grado e in appello, l’imputato aveva presentato ricorso per cassazione, sostenendo che il fatto contestato fosse stato depenalizzato in applicazione dell’art. 1 comma 7 del Decreto Legge 35/2005, così come modificato dalla Legge 99/2009.

A tal fine il ricorrente invocava la sentenza delle Sezioni Unite del 19.02.2012, n. 22225, che in un caso analogo aveva dichiarato che ”non può configurarsi una responsabilità penale per l’acquirente finale di cose in relazione alle quali siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale”.

Di diverso avviso la Corte, che ha rigettato il ricorso.

Innanzitutto il Collegio ricorda che nel precedente caso giudicato dalle Sezioni Unite l’imputato era stato accusato esclusivamente di ricettazione (art. 648 cp) per l’acquisto del bene. Viceversa, nella vicenda sottoposta al vaglio della V Sezione Penale veniva contestata l’importazione di beni contraffatti (art. 474 comma 1 cp). In altre parole, due condotte diverse.

Poco importa dunque che in entrambi i casi l’imputato fosse un privato che agiva per fini personali e non di commercio: “le Sezioni Unite non hanno inteso affermare la specialità dell’illecito amministrativo rispetto a qualsiasi condotta penalmente rilevante avente ad oggetto prodotti contraffatti qualora autore della medesima sia l’acquirente finale dello stesso”.

Solo la ricettazione (reato più grave), dunque, è stata depenalizzata. L’importazione, no.

Per arrivare a questa conclusione, che appare giuridicamente ineccepibile, la Corte osserva come la fattispecie dell’illecito amministrativo ricalchi quella dei reati di ricettazione e di incauto acquisto mentre non abbia elementi in comune con quella prevista dall’art. 474 comma 1 cp, verso la quale vi è un rapporto “di reciproca indifferenza”.

Del resto, anche tra ricettazione e importazione di prodotto falsi, da tempo, la giurisprudenza pacificamente ritiene che possano concorrere in quanto hanno ad oggetto condotte differenti; e la Corte lo ricorda: “le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità”.

D’altra parte lo stesso Legislatore del 2009 che ha depenalizzato l’acquisto di un falso ad opera del privato che intenda farne uso personale, ha con il medesimo provvedimento anche riscritto l’art. 474 cp punendo più gravemente proprio l’importazione di contraffazioni. E, commenta la Corte, “appare quantomeno inverosimile che la mancata riproduzione nella norma amministrativa di elementi idonei ad evocare in maniera esplicita la fattispecie penale di cui si tratta non sia stata oggetto di una scelta consapevole e intenzionale da parte del legislatore”.

Osservazione, questa, condivisibile e che anzi trova ulteriore conferma se si raffronta il tenore dell’art. 474 cp nell’attuale formulazione con quello precedente: prima, infatti, si puniva chi “introduce nel territorio dello Stato per farne commercio”; ora “chiunque introduce nel territorio dello Stato, ai fine di trarne profitto”. Considerato che la giurisprudenza, da tempo immemore, attribuisce al termine “profitto” un senso più ampio di “lucro”, comprensivo di “qualsiasi utilità o vantaggio derivante dal possesso della cosa” (Cass., Sez. I, 8245/1987; più di recente, Cass., Sez. II, 44378/2010), l’estensione della punibilità anche a condotte prima escluse perché prive di scopo di lucro non può che riguardare proprio quei casi in cui un soggetto agisce per un fine personale non strettamente economico, come sfoggiare un bene di marca senza sostenerne il costo.

Desiderio che, ancora oggi, comporta il rischio di un processo.

Chi siamo

Una struttura di penalisti in grado di intervenire sull’intero territorio nazionale con il supporto di una collaudata rete di corrispondenti

Leggi tutto »

Get social

Accesso Professionisti

Accesso Clienti

Privacy Policy